15 dicembre, 2006

I Bronzi di Riace

Chi rappresentano i due Bronzi? Due atleti? Due guerrieri? Oppure due barbuti eroi figli di Zeus o di Apollo? Le più varie ipotesi su quali fossero i persorsonaggi reali cui erano ispirati i bronzi di Riace sono fiorite fin dal 1972, quando il giovane subacqueo Stefano Mariottini ritrovò le due statue al largo di Marina di Riace (a pochi Km da STIGNANO).

Il bronzo A, detto anche "il giovane", potrebbe rappresentare Tideo, un feroce eroe proveniente dall'Etolia, figlio del dio Ares (o del re Eneo) e protetto di Atena. Il bronzo B, detto "il vecchio", raffigurerebbe invece Anfiarao, un profeta guerriero. Entrambi parteciparono alla mitica spedizione della città di Argo contro Tebe, e Anfiarao aveva persino profetizzato la propria morte sotto le mura di Tebe, e la disastrosa conclusione dell'avventura.
Oltre ad aver identificato i due personaggi, Moreno ha individuato gli artefici delle statue e trovato l'originale collocazione dei due pezzi. Il primo passo è stato l'identificazione degli artisti. «Mi ha aiutato il restauro», dice Moreno. «Le statue, infatti erano piene di terra, la cosiddetta "terra di fusione". Che, impregnata da secoli di salsedine, stava mangiandosi le statue dall'interno». La terra è stata estratta passando dai fori nei piedi grazie ad ablatori dentistici a ultrasuoni, pinze flessibili, spazzole rotanti, tutti controllati da microtelecamere che inviavano su un monitor immagini dell'interno delle statue, ingrandite da tre a sei volte.
«Analizzando la terra così estratta, si è scoperto che quella del bronzo B proveniva dall'Atene di 2500 anni fa, mentre quella del bronzo A apparteneva alla pianura dove sorgeva la città di Argo, più o meno nello stesso periodo», racconta Moreno. «E, soprattutto, si è scoperto che le statue furono fabbricate con il metodo della fusione diretta, poco usato perché non consentiva errori quando si versava il bronzo fuso, infatti, il modello originale era perduto per sempre». La provenienza geografica e la tecnica usata hanno convinto Moreno che l'autore del "giovane" fosse Agelada, uno scultore di Argo che, a metà del V secolo a. C., lavorava nel santuario greco di Delfi e nel Peloponneso. Infatti Tideo assomiglia moltissimo alle decorazioni del tempio di Zeus a Olimpia. «Quanto al vecchio, i risultati dell'analisi hanno confermato l'ipotesi dell'archeologo greco Geòrghios Dontàs: a scolpirlo fu Alcamene, nato sull'isola di Lemno, che pare avesse ricevuto la cittadinanza ateniese per i suoi meriti d'artista».
    
Grazie a un'attenta analisi delle statue si sono potuti accertare anche altri dettagli, alcuni dei quali sorprendenti. Per esempio che le statue erano abbellite da elementi cromatici: il rosso del rame evidenziava i capezzoli e le labbra gli occhi erano pietre colorate, i denti d'argento. «Quest'ultimo particolare, finora unico esempio nella statuaria classica», dice Paolo Moreno, «enfatizza bene l'espressione di Tideo, che non è affatto sorridente come sembra. Il suo è invece un ghigno satanico e bestiale, simbolo della ferocia del guerriero capace di fermarsi a divorare il cervello del nemico tebano Melanippo: un orrendo atto di antropofagia che costò all'eroe l'immortalità promessagli da Atena». Un'altra tragica vicenda sembra emergere dall'espressione angosciata del bronzo B. Anfiarao, il guerriero-profeta, che tradito dalla moglie Erifile, era stato costretto a partire per la guerra pur conoscendo la tragica conclusione della spedizione e la propria morte. Secondo Moreno, il capo di Anfiarao era cinto da una corona di alloro, simbolo della carica di profeta: l'indizio decisivo è la presenza di un foro sulla nuca, espediente spesso usato per unire alla statua gli "accessori" necessari.



 Resta un ultimo enigma. Come hanno fatto i due bronzi superstiti ad arrivare nel mare della Calabria? «All'inizio si ipotizzò che i due bronzi fossero stati gettati in mare dall'equipaggio di una
nave in difficoltà per il mare grosso», dice Moreno.

«Ma nelle campagne di rilevamento successive si ritrovò un pezzo di chiglia appartenuta a una nave romana di età imperiale». Si notò inoltre che le due statue erano state ntrovate vicine e affiancate, cosa impossibile anche se fossero state gettate in mare contemporaneamente.



Il ritrovamento sembra invece tipico di uno scafo di una nave naufragata, disfatta nei secoli a causa delle forti correnti e dell'acqua marina. «Una nave quindi trasportava i bronzi di Argo», conclude Moreno. Soltanto due? «Non è detto. Forse la nave apparteneva a un convoglio che trasportava l'intero gruppo, la cui sorte è ancora sconosciuta».

13 dicembre, 2006

Divertiamoci con i modi di dire e i proverbi calabresi....
  • T'azziccu nu schiaffu ca fazzu u ti criscinu i cerasi ntà testa.
  • Caru amicu mo tu'dicu I LOVE YOU ma'vistu mo e nu mi vidi chiu!!!
  • Ti para ca stamu 'ncartandu turruna!
  • 'Cu si marita è cuntentu 'nu jiornu, cu' mmazza ' u pòrcu è cuntentu n'annu. 
  • Quandu a fimmina motica l'anca, o è puttana o pucu ci manca!
  • U marito emigratu in germania, telefona da mugghjieri: COMU STA! JEU MALI CA SUGNI SUTTA ZERU. a mugghjieri rispundi: JEU MEGGHJIU, CA SUGNU SUTTA A UNU.
  • Cù dassa a strata vecchia pa nova, sapa chiddu cchi dassa m'on sapa chiddu chi trova.
  • I guai da pignàta i sapa a cucchijàra chi i manìja. 
  • Senza sordi 'on si'nda dinnu missi.
  • Sapiti cchi ssi dicia; ca a sarda si mangia a llicia.
  • Quandu ‘a tavula è misa cu non mangi perda ‘a spisa.
  • 'U mangiari senza 'mbiviri è comu u tronari senza chioviri.
  • Quandù rriva a tramuntàna dàssa u lìnu e pigghia a làna. 
  • Cù simina 'nta vigna nò meti e no vindigna.
  • A soggera pa nora anche s'è i zuccharu non è bona.
  • Na mamma faci pi centu figghioli, ma centu figghioli non fannu pi na mamma.
  • Amura e cerasi cchiù ndi menti e cchiù ndi trasi.
  • Megghiu pani e cipudda a' casa tua ca pisci e carni a casa d'attri.
  • Quandu 'u tempu è d'a marina, / pigghjia 'a pignata e va' e cucina.
  • Quandu 'u tempu è d'a muntagna, / pigghjia 'a zappa e va 'n campagna.
  • 'Nci dissi u surici a nuci: "Dammi tempu ca ti perciu!"
  • Di venneri e di marti non si spusa e non si parti.
  • Quannu chijovi a S. Giovanni,bona notti alli castagni.
  • Tira cchiù na fimmina 'nta 'nchianata ca nu paru i voi 'nta scinduta
  • "Pa Candelora u lanutu nesci fora pe quaranta jiorna ancora"

Ora una serie di proverbi con la rispettiva traduzione.

Ligne e cerza e pane e carusu viatu a chira casa chi se usa.
Legna di quercia e pane di grano beata la casa in cui se ne fa uso.

Si vo’ ‘mmitare u miegliu amicu, carne e crapa e ligne e ficu.
Se vuoi invitare il migliore amico, carne di capra e legna di fico.

U cavvulu vo’ do cuocu assai carne e assai fuocu.
Per essere gustosi i cavoli hanno bisogno di molta carne e molto fuoco.

De tutte e ‘mpusaglie, a supressata sa ra meglia.
Tra tutte le leccornie, la soppressata è la migliore.

Unn’è zuppa ch’è pane ‘mpusu.
Non è zuppa è solo pane bagnato.

Panza china canta, no’ cammina janca.
Stomaco pieno canta e non camicia bianca.

Panza china fa cantare.
Stomaco sazio fa cantare.

Mangia tutte e cose e lassa a vucca a ru casu.
Assaggia di tutto ma concludi con il formaggio.

Pane e lavatu se rennenu ammigliorati.
Pane e lievito vanno resi aumentati.

Chine tene pipe u minte a ri cavvuli.
Chi possiede pepe lo usa anche con la verdura.

Stipate u milu ppe quannu te fa sidde.
Metti da parte la mela per quando hai sete.

A tavula ricca fa ra casa povera.
La tavola dispendiosa fa la casa povera.

Unn’è pisci ppe fa brodu.
Non è pesce adatto per il brodo.

Panza mia fatti capanna.
Pancia mia fatti capanna.

E’ mangiatu pane e casu e nun cuntanu i fatti da casa.
Ho mangiato pane e formaggio e non posso raccontare in giro i fatti di casa mia.

E patate ne su abbutti i pezzienti.
Di patate ne sono sazi anche i poveri.

U miegliu cumpane è ru pitittu.
Il miglior companatico è l’appetito.

U vinu buonu ‘un se fa acitu.
Il vino buono non diventa mai aceto.

Gaddrina vecchia fa buon brodu.
Gallina vecchia fa buon brodo.

’Ntre vutte cchiù picciule, u meigliu vinu.
Nelle botti piccole, il miglior vino.

Chine avia fuocu campàu, chine avia pane moriu.
Chi aveva fuoco sopravvisse, chi aveva pane morì.

Miemmula iurata e sazizza sapurita su stati la rovina de la mia vita.
Mandorlo in fiore e salsiccia saporita sono state le rovine della mia vita.

Conzala cumu vue è sempra cucuzza.
Aggiustala come vuoi rimane sempre zucca.

U vinu? Chi si nne vo’ fare sulu ppe ra missa.
Il vino? Se ne dovrebbe fare solo per le funzioni religiose.

Damme pane ca vaiu fore.
Dammi pane e non ho paura ad andare in giro.

Chine lassa pane e coppa a mali danni ‘ncappa.
Chi rifiuta pane e prosciutto, va incontro a brutti guai.

Se mangia ppe campare, ‘un se campa mangiare.
Si mangia per vivere e non si vive per mangiare.

Cumu te puozzu amare cucuzza longa si ppe mangiare a tie cce vo’ ra carne.
Come faccio ad amarti cara zucca se per assaporarti devi essere accompagnata dalla carne.

Me solìa mangiare sette pani ‘n zuppa e mo’ c’è rimastu u pane e sutta.
Avevo l’abitudine di consumare sette pani e adesso non riesco a consumare per intero un solo piatto.

Na vota me morìu nu pulicinu, ce fattu centuvinti supressate e n’haiu untatu puru u vicinatu.
Da un pulcino riuscii a ricavare 120 soppressate e regalarne anche ai vicini.

Acqua a re papare e vinu a ri ‘mbriacuni.
Acqua per le papere e vino per gli ubriaconi.

Chine trippa accunsente, prima mangia e pue se pente.
Chi va dietro allo stomaco, prima mangia e poi si pente.

Arrustiennu mangiannu.
Mangiare mentre si cucina.

Pane e vilanza, u’ inchie mai a panza.
Pane razionato non riesce a soddisfare la pancia.

A panza china si raggiuni migghiu.
A pancia piena si ragiona meglio.

08 novembre, 2006

Giuseppe Musolino detto "U briganti"

Giuseppe Musolino conosciuto come il re dell'Asprumunti, o meglio ancora come il Brigante Musolino nasce a Santo Stefano in Aspromonte, Reggio Calabria, 24 settembre 1876. 
Taglialegna di mestiere, nel 1897 viene coinvolto in una lite fra due compaesani per una partita di nocciole:Un certo Vincenzo Zoccali, amico della parte avversa nella questione della nocciole, il 29 Ottobre dello stesso anno viene ferito da un colpo di fucile in una stalla dove viene trovato il berretto di Musolino. Al processo nonostante le prove portate da Musolino resistettero le false testimonianze di Rocco Zoccali e Stefano Crea che affermarono di averlo sentito adirato per il bersaglio fallito.
Sempre proclamatosi innocente, giura vendetta in caso di evasione. Viene condotto nel carcere di Gerace (dove deve scontare 21 anni). Dopo due anni alle 3:30 del 9 Gennaio 1899 riesce a fuggire e inizia la sua vendetta. Si racconta che durante la galera Musolino abbia sognato San Giuseppe che gli indicò il punto in cui avrebbe dovuto scavare nella cella, e con facilità scappare insieme ai suoi compagni di carcere (Giuseppe SuraceAntonio Filastò e Antonio Saraceno).
Commette una serie di omicidi contro tutti quelli che l'hanno accusato e tradito, nascondendosi poi tra le montagne, nei boschi, e persino nei cimiteri, godendo dell'appoggio della gente del posto, sia contadini, caprari che gente benestante, che lo vede come simbolo della ingiustizia in cui la Calabria allora versava. Inizia la caccia al brigante, vengono imposte delle taglie, ma Musolino sfugge sempre alla cattura.
La sua notorietà in poco tempo si sparge in tutta Italia grazie alla stampa e pure i giornali stranieri iniziano a interessarsi della vicenda. La sua figura così diventa una sorta di leggenda, e le sue gesta divengono spunto per molte canzoni popolari (Si ritrova nelle canzoni di Otello Profazio, Dino Murolo e Natino Rappocciolo, Enzo Laface e in altri cantanti folcloristici calabresi...).
Nel 1901 Musolino decide di uscire dalla Calabria per andare a chiedere la grazia al Re Vittorio Emanuele III e perché comunque la situazione diventava difficile per lui, anche con i suoi appoggi. Ad Acqualagna in provincia di Urbino però, viene per caso catturato da due carabinieri ignari della sua identità, che riescono a raggiungerlo perché è inciampato in un fil di ferro, i loro nomi erano: l'appuntato Amerigo Feliziani da Baschi (TR) Umbria ed Antonio La Serra da San Ferdinando di Puglia, comandati dal brigadiere Antonio Mattei (padre di Enrico Mattei). Musolino infatti stava percorrendo una viottolo di campagna nella località di Farneto nelle vicinanze di Acqualagna alla vista dei due carabinieri, che si trovavano nella zona alla ricerca di alcuni banditi del luogo, improvvisamente cominciò a correre pensando che cercassero lui. Inciampando però con un fil di ferro di un filare di vite fu fermato. Divenne famosa la frase:"Chiddu chi non potta n'esercitu, potta nu filu"(Quello in cui ha fallito un esercito,è riuscito un filo).
Si stima che complessivamente la cattura del brigante sia costata al governo intorno al milione di lire; il costo più alto per la cattura di un brigante.
Davanti alla Corte d'Assise di Lucca. Musolino pronuncia questa autodifesa: "Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più". Parole che diverrano celebri ma che comunque non gli evitano l'ergastolo al carcere di Portolongone e 8 anni in segregazione cellulare.
Solo nel 1933 un certo Giuseppe Travia, che era emigrato in America dopo l'evento iniziale di Santo Stefano, confessa di essere stato lui a sparare a Vincenzo Zoccali discolpando così definitivamente Musolino del primo delitto.
Resta in carcere fino al 1946, quando gli verrà riconosciuta l'infermità mentale, e poi portato al manicomio di Reggio Calabria, dove muore dieci anni dopo alle 10:30 del 22 Gennaio.
Omicidi e tentati omicidi: 
  • Angeloni - ferito
  • Alessio Chirico (guardia comunale) - omicidio
  • Stefano Crea - tentato omicidio
  • Carmine D'Agostino - omicidio
  • Francesco Fava (Sindaco di Bovalino) - tentato omicidio
  • Francesca Morabito - omicidio
  • Antonio Princi - omicidio
  • Stefano Romeo - tentato omicidio
  • Pasquale Saraceno - omicidio
  • Francesca Sigari (amante di Stefano Crea) - omicidio per errore
  • Stefano Zirilli (Consigliere comunale di Bovalino) - tentato omicidio
  • Stefano Zoccali (fratello di Vincenzo) - omicidio
  • Vincenzo Zoccali - tentato omicidio
Tutt'ora integro resta in Calabria il mito di Giuseppe Musolino, che anche attraverso il ricordo dei nonni e degli attuali cantanti folcloristici rivive.

26 settembre, 2006

La leggenda de "Le Castella"


Aleggia anche intorno a "Le Castella" il mito, ma è la storia millenaria di gloria e sventure che rende questo sito affascinante e misterioso. L'origine di Castella si perde nel tempo cosi come è circondata dal mistero la presenza, attestata fino al '500, di tre o due isolette non lontane dalla terra ferma, in una delle quali, quella denominata Calipso o Ogigia, la dea omerica avrebbe trattenuto per lungo tempo l'eroe dei mari Ulisse. Scrive a tale riguardo Plinio: ".....Promontorium Lacinium, cuius ante oram insula X milia passuum a terra Dioscoron, altera Calypsus, quam Ogigiam appellasse Homerus exstimatur" (Plinio, Historiae Mundi libri XXXVII). Ma la vera storia del luogo è quella legata al Castello, un edificio che è stato ed è ancora oggi il baricentro di tutte le vicende di questo meraviglioso pezzo di Calabria. Anche l'origine del nome è tuttavia incerta. Sembra che Annibale, incalzato dagli eserciti romani è costretto a un repentino ritorno in patria, abbia fatto costruire, là dove ora sorge il possente monumento aragonese una sorta di accampamento (o una torre di vedetta) intorno alla quale sarebbe più tardi nato il borgo ad opera di sbandati, mercanti, trafficanti vari che nell'antichità seguivano gli eserciti per vendere o battere le proprie cianfrusaglie. Il toponimo appare per la prima volta in un trattato stipulato nel 304 a.C. tra Roma e Taranto alla fine di stabilire i limiti di navigazione per le rispettive flotte. I tarantini vi avrebbero quindi costruito una torre che più tardi dovette suggerire ad Annibale, che aveva tanti amici tra i Bruzi sempre insofferenti dell'egemonia romana, l'idea di utilizzarla rafforzandola e forse ampliandola, come posto di vedetta. Da qui l'appellativo "Castra Hannibalis", riportato anche dal Barrio (De antiquate et situ Calabriae), assegnato per un certo periodo alla postazione. Dopo l'avventura annibalica, i Romani, cosi narra Titio Livio, per motivi strategici fecero sbarcare sul posto circa tremila coloni e chiamarono il luogo Castra. Ancora una volta motivi di difesa, di controllo marittimo segnavano il destino della contrada e cosi sarebbe stato per gli anni a venire. Nei secoli IX- XI Castella forse fu occupata dagli Arabi che avevano creato un emirato nella vicina Squillace ed avevano quindi tutto l'interesse di controllare l'intero golfo. Cessata in parte la minaccia araba, Castella diventa pia piano un popoloso borgo sul quale vengono erette anche due chiese: quella di Santa Maria e l'altra di San Nicola dipendenti dall'Abazia di Santa Maria della Matina in San Marco. Si ha notizia poi che intorno al 1251 a Castella erano presenti pubblici ufficiali quali giudici e notai, segno evidente questo di un'attiva vita commerciale e sociale. Ma la serenità e la laboriosità dei suoi abitanti vengono turbate in modo grave durante la feroce guerra tra Angioini ed Aragonesi che ebbe come corollario anche l'assedio e il conseguente saccheggio di Castella da parte dell'ammiraglio Ruggiero di Loria che militava per il re Giacomo d'Aragona (1290). Inutile fu la resistenza dei borghigiani rimasti fedeli a Pietro Ruffo conte di Catanzaro. Qualche anno dopo Castella assistette ad un altro clamoroso scontro fra le truppe di Guglielmo Estendard, comandante delle truppe angioine in Calabria e lo stesso Ruggiero di Loria accorso precipitosamente da Messina per difendere i territori minacciati dall'Estendard. Passano gli anni ed ecco che Castella si trova nuovamente al centro di aspre contese. Questa volta siamo nel 1459 impazza Antonio Centelles che ha sposato, ricevendo in doti i beni, Enrichetta Ruffo. Centelles, ambizioso e violento, nutre sogni di gloria che non piacciono certamente a re Ferdinando d'Aragona che scende per combattere contro il ribelle. La Calabria è in fiamme, Crotone e Castella restano però fedeli ai Ruffo-Centelles forse per motivi d'onore. Il Re assedia allora Castellla che viene duramente bombardata e alla fine costretta alla resa. Viene mandato a governare Castella al posto di Pietro de Capdevila, accusato di fellonia, Maso Barrese un terribile uomo che ha l'incarico di ridurre all'obbedienza la Calabria. Intanto l'avventura di Centelles volge miseramente alla fine, spogliato dei feudi che passano alla Corona, Castella viene venduta al Luogotenente Giovanni Pou che, accusato di tradimento, viene spogliato dei possedimenti e Castella questa volta passa a Giovanni Nauclero che nel 1487 riceve l'ordine di punire tutti i "traditori" quanti cioè in quegli anni avevano tramato contro gli Aragonesi. Il Nauclero procede con pazienza e fedeltà ma ciò non gli è sufficiente per mantenere i suoi beni. Le terre di Castella, Cutro e Roccabernarda per la bella somma di novemila ducati vengono vendute nel 1496 al nobile napoletano Andrea Carafa. Castella da questo momento orbita ormai intorno alla Contea di Santa Severina. Si preparano tempi duri per il villaggio che tra la metà del '500 e il secolo successivo vede diminuire la sua popolazione, sparire quasi del tutto i commerci, inaridire le sue belle campagne. Causa prima di questa lunga sfavorevole congiuntura la potenza ottomana che dilaga come un mare di fuoco nel Mediterraneo senza incontrare significativi ostacoli. Gli attacchi a Castella cominciano, sembra nel 1553 anno in cui la rais Caffat l'assale, brucia le campagne, cattura molti borghigiani. Tre anni dopo, vele turche appaiono ancora all'orizzonte, si avvicinano alla costa e quando si trovano ad adeguata distanza da essa cominciano un violento bombardamento. I borghigiani rispondono al fuoco per tutto un giorno, ma alla fine devono cedere. Ariadeno Barbarossa, il terrore dei mari, ordina il saccheggio. Molti trovano la morte, altri, tra i quali un macilento ragazzo, Giovan Dionigi Galeni, destinato a diventare il famoso Kiligi Alì alias Uccjalì, vengono fatti schiavi e divisi tra Sultano pirati e ciurma. Castella non ha neanche il tempo di rimangiare le sue ferite che nel 1544e nel 1548 il pirata Dragut la saccheggia di nuovo. Gli abitanti non si perdono d'animo, sanno che il nemico ritornerà ancora per cui rinforzano il Castello, scavano caverne nelle quali possono accedere attraverso botole ben mimetizzate, costruiscono una torre di guardia apprestano efficace difese anche in vista di un attacco da terra. E' chiaro che tutto questo impoverisce il borgo che spesso chiede un alleggerimento momentaneo dai gravami fiscali che è obbligato a versare ai vari signori e al vescovo. Drammatiche sono nel frattempo anche le vicende dei suoi feudatari. Alla morte di Andrea Carafa (1526) la Contea di Santa Severina, che comprende anche la Terra di Castella ed altri feudi, passa a Galeotto Carafa, nipote di Andrea che deve affrontare tra l'altro le incursioni di Barbarossa e di Dragut ma anche una congiuntura economica molto sfavorevole che comporterà lo smembramento della contea di Santa Severina e la vendita di Castella a Ferrante Carafa, conte di Soriano e duca di Nocera dei Pagani. A Ferrano succede nel 1558 il figlio Alfonso che proprio nello stesso anno deve assistere ad un'ennesima incursione turchesca. Questa volta è Mustafà Pascià che prende di mira Cutro e dopo aver arrecato notevoli danni anche a Castella, la mette a ferro e fuoco. Durante questa scorreria viene catturata la giovinetta Caterina Ganguzza che si racconta abbia preferito darsi la morte piuttosto che diventare concubina del Sultano. Alfonso deve anche sostenere lunghe liti con il Vescovo della diocesi che vantava dei diritti su alcune terre di Castella. E lui poi che avanza l'idea, respinta da tutti i vassalli, di abbattere addirittura Castella per impedire che vi si annidassero i Turchi. Sotto Alfonso e il suo successore Francesco Maria il feudo si sfalda con la vendita a Giovanna Ruffo, marchesa di Licodia e poi anche principessa di Scilla, di Castella, Cutro, Roccabernarda e feudi annessi. Alla morte di Giovanna (1650), Castella passa al figlio Francesco Maria sotto il cui dominio Castella vede la soppressione, da parte di Papa Innocenzo X, del convento dei frati Minori Riformati nell'ambito di un generale progetto che interessava tutti i Conventi che non avessero un certo numero di religiosi. La situazione precipita, i creditori dei Ruffo non potendo questi ultimi onorare i loro ingenti debiti chiedono la vendita all'asta dei loro beni. Le terre di Cutro, Castella, Roccabernarda ed altre ancora vengono acquistate allora per 150.000 ducati di Pietro Carafa per conto di Francesco Filomarino (1664). I Filomarino sono gli ultimi intestatari del feudo suddetto. La legge eversiva della feudalità, voluta dai conquistatori francesi di Napoleone, avrebbe favorito il passaggio di quello che era stato un grande feudo alla famiglia dei Barracco e dei Berlingieri. Il fatidico anno 1799 vede ancora Castella epicentro dello scontro tra francesi e borbonici e punto di approdo delle truppe provenienti dalla Sicilia. Gli anni ruggenti di Castella sono però finiti. Da quel momento il borgo, prima aggregato a Crotone e poi divenuto frazione di Isola Capo Rizzuto, segue le vicende amministrative e politiche prima del risorto Regno di Napoli, poi dello Stato italiano.

11 settembre, 2006

Stignano: storia, vicende e cultura di un paesino della Locride

Stemma Stignano 


A 340 metri di altezza sul livello del mare svetta, su uno sperone roccioso, STIGNANO.





Questo antico centro, posto in forte posizione sulla vallata del Precariti, fu in passato feudo ambito. Stignano ottenne l'autonomia il 4 Maggio 1811 (mantenuta in seguito, eccetto una breve parentesi nel 1817). Nota la disputa che, negli ultimi anni, ha opposto i cittadini di Stignano a quelli di Stilo. Motivo della contesa il luogo di nascita di Tommaso Campanella, assegnato a Stilo perché a quei tempi Stignano, non possedendo autonomia finanziaria, dipendeva amministrativamente da Stilo. In effetti, nel 1968, un Decreto ministeriale ha confermato che la nascita del grande filosofo è avvenuta a Stignano. Qui si trova infatti la casa natale di Tommaso Campanella, posta sotto la tutela della Sovrintendenza alle Belle Arti. 
Ora un'immagine dal retro di Stignano.

Il centro storico di Stignano presenta un classico impianto medievale, con splendide costruzioni settecentesche, fra cui Palazzo Attaffi.

Le sue più antiche vicende sono legate a quelle dell'antica e nobile e gloriosa Contea di Stilo, una confederazioni di Casali, ognuno con propria autonomia, con un proprio parlamento con proprie leggi. Sicuramente, per via di questo legame, la storia di Stignano s'intreccia anzi si inabissa nei tempi più remoti e precisamente a quelli immediatamente successivi alla distruzione della postazione magnogreca di Kaulonia anche se la caratteristica principale del paese è la tipologia medioevale. La ricerca etimologica sul termine "Stignano" lascia aperti ancora confini della storia civica secondo alcuni studiosi il nome deriverebbe da un radic. greco stenòs, luogo angusto, stretto, mentre secondo uno studio più consolidato si tratterebbe di un nome preso dalla cittadina dal termine latino Stenianum che indicherebbe "possesso o villa di uno Stenus, o Stenius"?). Rimane, comunque, ancora aperto il campo dello studio, direttamente sul territorio, atto ad accertare l'origine propria del Centro del versante jonico delle Serre che, di certo, si fonda su uno sperone di conglomerato miocenico e, quindi, sito formatosi geologicamcntc, nel secondo periodo dell'era terziaria o cenozoica. La vera storia di Stignano è comunque legata alle vicende del Regio Demanio di Stilo e della sua Universitas comprendente diverse comunità limitrofe sotto l'orma di Casali. Stignano, quindi, fu Casale di Stilo fino al 1811, fino a quando cioè venne eretto a Comune autonomo sotto l'ordinamento amministrativo francese al tempo di re Gioacchino Murat, il maresciallo di Francia, cognato di Napoleone per averne sposato la sorella Carolina, divenuto re di Napoli quando seppe dimostrare alle popolazioni del Regno di sapere e volere abbattere il sistema oppressivo spagnolo attuando una politica di vere e proprie riforme tra cui, appunto, la restituzione dell'autonomia ai Comuni per diversi secoli sotto la giurisdizione di Contee o Feudi.
Adesso.... qualche immagine di Stignano!!!
                  
Ed ora il fantastico mare di Stignano. Che spettacolo!!!!!

    
Vista dal Satellite
Potevamo farci mancare un'immagine di Stignano visto dall'alto??? .. Grazie all'ausilio dei potenti mezzi satellitari, ecco a voi un'immagine del paese ripreso dallo spazio.

Villa Caristo
Villa Caristo è una prestigiosa dimora settecentesca, unico esempio di arte barocca in Calabria. Luogo magico di squisita eleganza. La leggenda vuole che Villa Caristo sia stata edificata sulle rovine di una villa di epoca romana appartenuta al patrizio romano Stenius da cui sarebbe poi derivato il nome dell'attuale Stignano. Finora non sono stati eseguiti studi e ricerche approfonditi  per conoscere l'architetto che progettò e realizzò questo magnifico palazzo e il parco circostante,veri ed unici gioielli che richiamano per stile, ricchezze ornamentali ed eleganza, le ville vesuviane. Secondo l'opinione più accreditata infatti, tale villa sarebbe da attribuire ad epigoni del Vanvitelli o del Sanfelice o del Vaccaro, che la idearono, spronati dal fervore edilizio avvenuto nel napoletano durante il periodo borbonico. Col trascorrere degli anni, oltre all'insulto del tempo, la villa subì gravi ed irreparabili spoliazioni: a ragion veduta si calcola che circa un centinaio di statue di marmo di Paros furono sottratte furtivamente per abbellire ville signorili del vicinato. La deliziosa fontana dei delfini, in fondo al belvedere straordinariamente elegante nel suo impianto semplicistico, fa ricordare la statua di Leda e il Cigno collocata nella fontana allegorica di Villa Signorino a Ercolano, di attribuzione Vaccariana. La facciata della villa, costituita da un'imponente costruzione a due piani, accoglie una scala a 'tenaglia', elemento presente anche nella villa del principe Spinelli di Tarsia, eseguita dal Vaccaio. Ai piedi della scala, centralmente, vi e' il gruppo marmoreo raffigurante Tancredi che battezza Clorinda morente (canto XII della Gerusalemme Liberata), unico in Italia e nel Mondo. Lo stesso Prof. Carlo Giulio Argan aveva escluso l'esistenza di figure plastiche riconducibili al poema del Tasso. La Villa suddetta, un esempio piu' unico che raro, fu definita dal Frangipane, critico d'arte calabrese, 'la piu' bella e la piu' architettonica della regione, degna dei dintorni di Napoli, come di Torino settecentesca e di Catania barocca'.
Al piano terra è posta una cappella gentilizia con tre altari, che conserva una statua di San Leonardo e due affreschi accreditata sulla sua edificazione dà a Vanvitelli la paternità dell’opera, anche se risulta certo che la costruzione avvenne con l’ausilio di maestranze locali. Al piano superiore, invece, due ampie terrazze e un sontuoso salone, sul cui tetto è raffigurata in maniera superba la dea Venere. All’esterno si trovano le sue tre fontane: la prima è sormontata da una scultura che raffigura Tancredi nell’atto di salvare Clorinde; la seconda (Fontana degli Specchi) domina il belvedere ed è sormontata da alcune tazze poligonali e circolari in marmo; la terza, quella dei delfini, separa la struttura dalla piscina.
Vi si accede tramite una snella scalinata che conduce direttamente al piano superiore.   La storia della villa si perde nella notte dei tempi e la leggenda vuole che essa sia stata edificata sulle rovine di una villa romana appartenuta al patrizio Stenius, da cui derica l'attuale nome di Stignano. Di proprietà della famiglia Lamberti, venne venduta al marchese Clemente e successivamente, nel 1800, alla famiglia Caristo di Stignano. Oltre all'insulto   del tempo, la villa ha subito spoliazioni ed è solo grazie al'impegno degli attuali proprietari che si è in parte salvata dalla rovina.

Nella terrazza frontale si trova la fontana di marmo bianco ornata da un gruppo  marmoreo  che rappresenta Tancredi che soccorre Clorinda. Intorno si estende una zona  a giardino, delimitata da un muro ornato da pilastri coronati da cornici e intervallati da fontane. 



La villa per la fine bellezza e unicità fu prescelta accanto alla reggia di Stupinigi, alla Villa dei principi Mellone di Lecce e al palazzo del Principe (Doria Pamphili) di Genova per la serie filatelica  "Le ville d'Italia" emessa dalle poste Italiane nel 1984.

I giardini presentano una prima fontana sormontata da un gruppo marmoreo che raffigura Tancredi mentre soccorre Clorinda.

 Convento di San Antonio a Stignano
Si trova anche a Stignano il convento di S. Antonio (ex convento di S Francesco di Paola con annessa chiesa dei Minimi) che è stato fondato da Paolotti nel 1641, ed ha un chiostro delimitato da un bel porticato.


 
Calvario a Stignano
Il Calvario è un monumento, con immagini della crocifissione di Cristo. 
Chiesetta a Stignano
A poche centinaia di metri dal Calvario c'è una chiesetta abbandonata del 1756.


All'interno è situata la statua della Madonna Immacolata di Stignano, festeggiata e onorata l'otto dicembre.
 
All'interno della chiesa di Stignano c'è un affresco, che pur essendo in stato di degrado, si riesce ancora ad interpretare.
Alcuni particolari dell'affresco ingranditi.


 
Un'insegna in latino all'interno della chiesetta.
Castello San Fili a Stignano
Il Castello di S.Fili di Stignano, è una torre nata come struttura difensiva nel ‘500, poi modificata dai feudatari a fini residenziali. Il castelletto è stato inserito da Legambiente, nel 1996, nel gruppo dei monumenti italiani da preservare.
Torre San Fili
La Torre di San Fili a Stignano, è una torre cilindrica con funzione di avvistamento e di guardia coordinata con l'apparato di difesa contro le invasioni saracene e turche. E' del 1600.

Gastronomia di Stignano

I piatti che troviamo sulle tavole di Stignano sono caratterizzati dall'uso frequente di peperoncino, olio di oliva e pomodoro fresco.

Antipasti
Nei ricchi e abbondanti antipasti di Stignano troviamo le "zippuli" (zeppole) preparate con farina, latte, sale, lievito di birra e alici; "laci" (dolci salati) preparati con farina, vino, lievito e sale; la "frisa" (pane biscottato) condita con origano, olio, sale e pomodoro; la supprizzata" (salame); "livi cumbitè" (olive verdi nostrane) preparati con acqua e sale; il "formaggiu pecurinu" (formaggio pecorino); le "malangiani sutt'oghiu" (melanzane sott'olio) arricchite con peperoncino piccante, spicchi d'aglio, sale, aceto, foglie di basilico e olio di oliva; "cucuzzedi spinusi"(carciofini selvatici).
Primi Piatti

Nei primi piatti di Stignano spicca la pasta: "pasta e casa cu sugu e crapa" (pasta fatta in casa con carne di capra cucinata nella salsa di pomodoro); "pasta e fagiola" (pasta e fagioli); "pasta chi vrocculi" (pasta e broccoli); "pasta ca ricotta" (pasta e ricotta); "pasta e casa cu pruppetti e carna tritata" (pasta fatta in casa con polpette e ragù); "favi ca frittola" (fave fresche con la cotenna).

Secondi Piatti 

Nei secondi piatti di Stignano, si possono gustare delle ottime fritture a base, soprattutto, di pesce. Spicca l'immancabile "baccalà frijutu chi pumadora i resta" (baccalà fritto con pomodorini);   le "alici e sardi chini" (acciughe e sardine ripiene); i "cacioffuli, pipi, malangiani, pumadora chini" (carciofi, peperoni, melanzane, pomodori ripieni); "gadina n'to brodui" (gallina in brodo) "spiedini 'a calabrisi"; il "crapettu o furnu chi patati" (capretto al forno con patate); lo "stoccu chi patati" (stoccafisso con patate); le "pruppetti i mulangiani o i carni" (polpette  di melanzane o di carne); il "u pruppettuni"(polpettone di carne ripieno di uova sode,  mozzarella, piselli, prosciutto); "pittelle chi juri i cuccuzza" (frittelle con fiori di zucca) e numerose frittate tra le quali spicca quella di asparagi.

Dolci

I dolci tipici di Stignano nei periodi festivi sono la "n'guta" (biscotto con soprastante uovo sodo); i "pizzi" (biscotti ripieni di noci, mandorle, nocciole, cannella, garofano, uva passa e caffè); lo "stomaticu" (biscotti con mandorle); "pana cu jiuri e maiu" (pane impastato con fiori di sambuco).


Artigianato

L'economia di Stignano si impernia essenzialmente sull'agricoltura, sulla coltivazione dell'ulivo, della vite e sui seminativi a grano duro per la massima parte della parte dell'area rurale non irrigua; nella rimanente parte, nella zona di pianura, sono presenti gli agrumi, con qualche modesta attività ortiva. Mezzo secolo fa, circa si coltivava attivamente il gelso bianco, le cui foglie erano utilizzate per l'allevamento del baco da seta; parecchia manodopera femminile si dedicava conseguentemente alla produzione del filato da seta e dalla sua tessitura sui telai manuali. Assente risulta l'allevamento zootecnico, presente invece in modesta entità quello ovino e caprino. L'artigianato, quasi tutto in mano agli uomini, vantava particolarmente la presenza di capi mastri scalpellini, come da frase storica "Stignano, dove nasce la pietra da mola per grano e olio", falegnami, calzolai, cestai. A testimonianza si possono osservare tutt'ora stupendi portali, stemmi, freggi, scalinate, davanzali in pietra lavorata, portoni e finestre in legno intarsiato. Altra grande attività, consisteva nella lavorazione della ceramica grezza, con la produzione di mattonelle, tegole (o "ciaramide"), condotte d'acqua ecc.

Manifestazioni tradizionali

Il patrono di Stignano, San Raffaele Arcangelo, è festeggiato nelle giornate del 23-24 ottobre con una solenne Santa Messa a cui segue la processione per le vie del paese. I cittadini del paese in questi giorni si riversano nella piazza principale dove vi è allestita la fiera. L'ultima sera i festeggiamenti si concludono con manifestazioni musicali.
Una delle feste più sentite e partecipate è quella che si svolge nei giorni 11-12 e 13 giugno, in onore di Sant'Antonio. Nella prima serata vi è il raduno dei cori parrocchiali, giorno dodici sono solitamente i giovani di Stignano ad animare la serata con scenette, recite,canti, ecc. La festa vera e propria si svolge giorno tredici. I festeggiamenti hanno inizio al mattino con solenne Santa Messa a cui segue una lunga processione per le vie del paese a seguito della quale la statua del Santo viene portata nella chiesa dell'Annunciazione per poi essere riportata nel tardo pomeriggio al convento a lui dedicato. La serata si conclude con spettacolari fuochi pirotecnici e spettacolo musicale. Durante il periodo estivo Stignano intrattiene i suoi cittadini e i turisti con varie sagre e due feste religiose: San Rocco che si celebra il 16 agosto e Maria Madre della Chiesa che si celebra la seconda domenica di Agosto e si venera nella parrocchia omonima in Stignano Mare.

Ecco il video girato da mio cugino, in arte Cippo, la sera del 16 Agosto 2007 a Stignano durante la festa in onore di "SAN ROCCO". 
Animazione Flash
Copyright 2007. Tutti i  diritti del video sono riservati da Cippo.

Cifre e dati anagrafici di Stignano
Stignano (C.A.P. 89040), conta 1.373 abitanti (Stignanesi) e ha una superficie di 17,4 chilometri quadrati per una densità abitativa di 78,91 abitanti per chilometro quadrato. Sorge a 343 metri sopra il livello del mare.
Il municipio è sito in Via Roma, tel. 0964 772121, fax. 0964 772121.
Cenni anagrafici: Il comune di Stignano ha fatto registrare nel censimento del 1991 una popolazione pari a 1.645 abitanti. Nel censimento del 2001 ha fatto registrare una popolazione pari a 1.373 abitanti, mostrando quindi nel decennio 1991 - 2001 una variazione percentuale di abitanti pari al -16,53%.

Gli abitanti sono distribuiti in 503 nuclei familiari con una media per nucleo familiare di 2,73 componenti.
Cenni occupazionali: A Stignano risultano insistere sul territorio del comune 15 attività industriali con 52 addetti pari al 29,05% della forza lavoro occupata, 18 attività di servizio con 29 addetti pari al 16,20% della forza lavoro occupata, altre 27 attività di servizio con 57 addetti pari al 31,84% della forza lavoro occupata e 9 attività amministrative con 41 addetti pari al 22,91% della forza lavoro occupata.
Cultura a Stignano: Tommaso Campanella.

Frate domenicano, filosofo eretico, poeta, astrologo e mago avventuriero,Tommaso Campanella è l'uomo per il quale l'universo era "Li teatri e scene nelle quali rappresenta il senno eterno tanti gran giochi di rote sopra ruote"
Nelle campagne di Stignano, un piccolo paesino ionico della Calabria, terra desolata dal malgoverno spagnolo, dalle calamità naturali e dalle scorrerie turche, nasce il 5 settembre 1568 in una casa dove per far luce si accendeva un fascio di ristoppie, Giovan Domenico Campanella, dal padre Geronimo, ciabattino analfabeta ma saggio, e da Caterinella Martello, un'intelligente contadina con tanti figli da accudire. Il piccolo Giovan Domenico, assetato di una voglia insaziabile di conoscere e scoprire, cresce con i racconti paterni attorno al focolare domestico, dai quali intuisce che la possibilità di apprendere passava, così come avveniva fino a pochi decenni prima, attraverso la chiesa. Precocissimo, brucia in lui la sete di sapere: ammaliato dall'eloquenza di un frate domenicano, a 13 anni entra nell'Ordine dei predicatori e diventa frate Tommaso. I suoi maestri delle discipline grammaticali, filosofiche e teologiche iniziano ad alimentare forti dubbi nel giovane dotato di sfavillante ingegno: Campanella, Campanella, tu non farai buon fine, dice il maestro dei novizi al domenicano dall'ingegno vivace che nelle sue poesie scriveva: "Di cervel dentro un pugno io sto, e divoro tanto, che quanti libri tiene il mondo non saziar l'appetito mio profondo: quanto ho mangiato! e del digiun pur moro". Nel 1588 arriva a Cosenza, 'l'Atene delle Calabrie', che in quel periodo gode il suo massimo splendore, ricca di effervescenza culturale, grazie all'Accademia cosentina, rifondata da B. Telesio. Dopo un viaggio occasionale, svolto a bordo di una carrozza a quattro cavalli, ad accogliere il giovane Campanella nel convento dei Domenicani (un tempo sede dell'Università, la terza del Viceregno) sito nei pressi della confluenza del fiume Crati con il Busento, è padre Enriquez. E' qui che il grande pensatore inizia a divorare i testi telesiani introvabili altrove ed inizia ad entusiasmarsi per le opere di quello che considererà il suo maestro di vita e che, pur non riuscendolo mai ad incontrare personalmente, rimarrà sempre l'ispiratore della sua fisica e cosmologia.
Il 3 ottobre 1588 Telesio muore e Campanella, portandosi nel Duomo di Cosenza per rendere omaggio alla salma del suo maestro, da lui considerato il genio più grande di tutto l'intero secolo, per ringraziarlo dei suoi preziosi insegnamenti e per aver ricevuto l'ispirazione divina alle confluenze dei fiumi, getta sul catafalco un madrigale in latino di omaggio devoto.

Nell'autunno del 1588 Campanella viene allontanato dai suoi superiori dal convento di Cosenza, per aver pronunciato l'elogio funebre del filosofo eterodosso cosentino e per aver stretto amicizia con un astrologo negromante di nome Abrahm. Fu trasferito nel convento di Altomonte, dove compose in pochi mesi una nutrita apologia del Telesio con il titolo di Philosophia sensibus demonstrata, la filosofia dimostrata con i sensi e non più appresa supinamente sui libri.
Incurante dell'obbligo di residenza, si reca a Napoli dove nel 1591 subisce un primo processo 'per congiura con i demoni'; prosciolto dal processo inizia a viaggiare, partendo da Roma, quindi Firenze, Bologna e Padova, dove studia per un anno. Insofferente all'aristotelismo dogmatico inizia ad esplorare senza remore lo scibile del suo tempo.
In seguito alle sue idee poco ortodosse in materia religiosa, si ritrovò ben presto nel mirino degli inquisitori, dai quali fu accusato di eresia e rinchiuso in carcere a Roma. Infrazioni disciplinari, intemperanze verbali, opinioni eterodosse, dispute incaute, forniscono al Sant'Uffizio materia per un duplice processo che si concluderà in Roma nel dicembre 1597 con l'ordine di far rientro verso la nativa Calabria. Nel 1599 tornò in Calabria a Squillace dove tentò di organizzare una rivolta contro il dominio spagnolo a favore dei Turchi e di gettare le basi per una profonda riforma religiosa, ma fu tradito da alcuni compagni e, dopo aver tentato la fuga, fu processato e condannato a morte nel carcere di Castel dell'Ovo a Napoli, un fortilizio di origine normanna. Sfuggì alla condanna a morte simulando la pazzia per 27 anni, senza cedere alle pesanti torture cui venne sottoposto nel tentativo si strappargli l'abiura. In questo periodo malgrado la sorveglianza persecutoria, le proibitive condizioni ambientali, le torture, la mancanza di libri, ritesseva le 30.000 pagine dell'immensa tela delle sue opere. Durante la prigionia compose La monarchia di Spagna, La Teologia, L'Apologia pro Galileo, le Poesie, La Città del Sole.

I Solari o abitanti della Città del Sole vivendo in simbiosi con la natura che li circonda, riescono ad avere con essa un rapporto di armonia e di rispetto secondo il giusto presupposto che il genere umano non è avulso dal resto dell'ambiente ma ne è parte integrante e di esso è una componente fondamentale. Credono nell'immortalità dell'anima e rivolgono le preghiere più solenni al cielo di cui indagano i segreti astrologici.
Le fonti delle poesie di Campanella sono i classici latini Lucrezio e Virgilio, ma hanno un'influenza determinante anche Gioacchino da Fiore e Dante. Campanella spesso si propone in esse, non senza enfasi, come portavoce della verità: Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia; [...], dunque a diveller l'ignoranza io vengo.
In tutte queste opere come nelle successive, è presente la fisica naturalistica di Telesio che gli si rivelò coerente e liberatrice, svincolata dall'aristotelismo dominante che i docenti ripetevano meccanicamente da secoli e sulla quale avevano costruito il loro potere accademico e religioso. Telesio il telo della tua faretra uccide dai sofisti in mezzo al campo degli ingegni il tiranno senza scampo; libertà dolce alla verità, impetra. Nel 1604 è trasferito a Castel sant'Elmo in una fossa sotterranea umida e senza luce, ove resta legato mani e piedi per quattro durissimi anni tra sofferenze ed umiliazioni. Nel 1613 Campanella ricevette Tobia Adami, letterato tedesco che riuscì a salvare parte dei suoi manoscritti che venivano ricomposti e rielaborati più volte in seguito ai sequestri dei suoi carcerieri, consegnandogli tutte le sue maggiori opere che questi trasporta in Germania. Inizia ad intrecciare un carteggio quotidiano di oltre 200 lettere. L'autore preferì firmarsi "Settimontano Squilla", attraverso una duplice allusione al senso profetico del proprio cognome. Campanella si sente un profeta; ha sette protuberanze in testa sulla sua scatola cranica in corrispondenza con i sette pianeti allora conosciuti. Campanella diventa Squilla: è lui la campana che risveglia, che fa aprire gli occhi alle genti e di conseguenza non può che attirarsi l'ira di coloro i quali nel governare vogliono mantenere le tenebre. Dopo essere trasferito da Napoli a Roma, nel 1626 riacquistò una parziale libertà. Fu una libertà effimera in quanto subito dopo un mese viene di nuovo incarcerato a Roma per rendere conto al tribunale ecclesiastico di quei fatti che la giustizia laica gli aveva rimesso dopo una lunga espiazione. Rimase quindi per altri due anni di dura prigionia nel palazzo romano del Sant'Uffizio, e fu rimesso in libertà per intercessione del Papa Urbano VIII di cui si attirò il favore grazie alla sua conoscenza della magia. Fu costretto poi dall'invidia dei curiali a fuggire da Roma e a rifugiarsi in Francia, dietro suggerimento del Pontefice, per timore di essere accusato di un nuovo complotto contro la Spagna, dove potè godere della benevolenza di numerosi suoi estimatori. L'1 dicembre 1634 veniva accolto a Parigi da tutto il mondo della cultura, diventando consigliere politico del potente cardinale Richelieu, che gli assicura onori ed una sorta di vitalizio. L'indomabile perseguitato però non rinuncia a calmare il suo spirito ribelle e continua a lottare per i suoi forti ideali politici e religiosi che trovano l'espressione più alta nell'universale monarchia cattolica unificatrice di tutta la terra. La guerra dei trent'anni, entra nel vivo e Parigi festeggia la nascita del futuro Luigi XIV al quale Campanella prepara l'oroscopo alla presenza di re Luigi XIII che ne rimane affascinato. All'alba del 21 Maggio 1639 spirò tra le preghiere dei confratelli domenicani del convento della Rue St-Honorè. E' sepolto nella fossa comune come semplice frate in pieno rispetto delle sue ultime volontà. Le sue ceneri in seguito all'abbattimento di quell'edificio nel 1793, andarono disperse. La cultura intera lo piange.
Indicazioni per raggiungere Stignano
Per raggiungere Stignano devi seguire la SS 106 fino al Km 120. Dopodichè ti troverai nei pressi di un bivio:
Segui l'indicazione del cartello. Segui la SP 94 per 10 Km e ti ritroverai automaticamente a Stignano.