Aleggia anche intorno a "Le Castella" il mito, ma è la storia millenaria di gloria e sventure che rende questo sito affascinante e misterioso. L'origine di Castella si perde nel tempo cosi come è circondata dal mistero la presenza, attestata fino al '500, di tre o due isolette non lontane dalla terra ferma, in una delle quali, quella denominata Calipso o Ogigia, la dea omerica avrebbe trattenuto per lungo tempo l'eroe dei mari Ulisse. Scrive a tale riguardo Plinio: ".....Promontorium Lacinium, cuius ante oram insula X milia passuum a terra Dioscoron, altera Calypsus, quam Ogigiam appellasse Homerus exstimatur" (Plinio, Historiae Mundi libri XXXVII). Ma la vera storia del luogo è quella legata al Castello, un edificio che è stato ed è ancora oggi il baricentro di tutte le vicende di questo meraviglioso pezzo di Calabria. Anche l'origine del nome è tuttavia incerta. Sembra che Annibale, incalzato dagli eserciti romani è costretto a un repentino ritorno in patria, abbia fatto costruire, là dove ora sorge il possente monumento aragonese una sorta di accampamento (o una torre di vedetta) intorno alla quale sarebbe più tardi nato il borgo ad opera di sbandati, mercanti, trafficanti vari che nell'antichità seguivano gli eserciti per vendere o battere le proprie cianfrusaglie. Il toponimo appare per la prima volta in un trattato stipulato nel 304 a.C. tra Roma e Taranto alla fine di stabilire i limiti di navigazione per le rispettive flotte. I tarantini vi avrebbero quindi costruito una torre che più tardi dovette suggerire ad Annibale, che aveva tanti amici tra i Bruzi sempre insofferenti dell'egemonia romana, l'idea di utilizzarla rafforzandola e forse ampliandola, come posto di vedetta. Da qui l'appellativo "Castra Hannibalis", riportato anche dal Barrio (De antiquate et situ Calabriae), assegnato per un certo periodo alla postazione. Dopo l'avventura annibalica, i Romani, cosi narra Titio Livio, per motivi strategici fecero sbarcare sul posto circa tremila coloni e chiamarono il luogo Castra. Ancora una volta motivi di difesa, di controllo marittimo segnavano il destino della contrada e cosi sarebbe stato per gli anni a venire. Nei secoli IX- XI Castella forse fu occupata dagli Arabi che avevano creato un emirato nella vicina Squillace ed avevano quindi tutto l'interesse di controllare l'intero golfo. Cessata in parte la minaccia araba, Castella diventa pia piano un popoloso borgo sul quale vengono erette anche due chiese: quella di Santa Maria e l'altra di San Nicola dipendenti dall'Abazia di Santa Maria della Matina in San Marco. Si ha notizia poi che intorno al 1251 a Castella erano presenti pubblici ufficiali quali giudici e notai, segno evidente questo di un'attiva vita commerciale e sociale. Ma la serenità e la laboriosità dei suoi abitanti vengono turbate in modo grave durante la feroce guerra tra Angioini ed Aragonesi che ebbe come corollario anche l'assedio e il conseguente saccheggio di Castella da parte dell'ammiraglio Ruggiero di Loria che militava per il re Giacomo d'Aragona (1290). Inutile fu la resistenza dei borghigiani rimasti fedeli a Pietro Ruffo conte di Catanzaro. Qualche anno dopo Castella assistette ad un altro clamoroso scontro fra le truppe di Guglielmo Estendard, comandante delle truppe angioine in Calabria e lo stesso Ruggiero di Loria accorso precipitosamente da Messina per difendere i territori minacciati dall'Estendard. Passano gli anni ed ecco che Castella si trova nuovamente al centro di aspre contese. Questa volta siamo nel 1459 impazza Antonio Centelles che ha sposato, ricevendo in doti i beni, Enrichetta Ruffo. Centelles, ambizioso e violento, nutre sogni di gloria che non piacciono certamente a re Ferdinando d'Aragona che scende per combattere contro il ribelle. La Calabria è in fiamme, Crotone e Castella restano però fedeli ai Ruffo-Centelles forse per motivi d'onore. Il Re assedia allora Castellla che viene duramente bombardata e alla fine costretta alla resa. Viene mandato a governare Castella al posto di Pietro de Capdevila, accusato di fellonia, Maso Barrese un terribile uomo che ha l'incarico di ridurre all'obbedienza la Calabria. Intanto l'avventura di Centelles volge miseramente alla fine, spogliato dei feudi che passano alla Corona, Castella viene venduta al Luogotenente Giovanni Pou che, accusato di tradimento, viene spogliato dei possedimenti e Castella questa volta passa a Giovanni Nauclero che nel 1487 riceve l'ordine di punire tutti i "traditori" quanti cioè in quegli anni avevano tramato contro gli Aragonesi. Il Nauclero procede con pazienza e fedeltà ma ciò non gli è sufficiente per mantenere i suoi beni. Le terre di Castella, Cutro e Roccabernarda per la bella somma di novemila ducati vengono vendute nel 1496 al nobile napoletano Andrea Carafa. Castella da questo momento orbita ormai intorno alla Contea di Santa Severina. Si preparano tempi duri per il villaggio che tra la metà del '500 e il secolo successivo vede diminuire la sua popolazione, sparire quasi del tutto i commerci, inaridire le sue belle campagne. Causa prima di questa lunga sfavorevole congiuntura la potenza ottomana che dilaga come un mare di fuoco nel Mediterraneo senza incontrare significativi ostacoli. Gli attacchi a Castella cominciano, sembra nel 1553 anno in cui la rais Caffat l'assale, brucia le campagne, cattura molti borghigiani. Tre anni dopo, vele turche appaiono ancora all'orizzonte, si avvicinano alla costa e quando si trovano ad adeguata distanza da essa cominciano un violento bombardamento. I borghigiani rispondono al fuoco per tutto un giorno, ma alla fine devono cedere. Ariadeno Barbarossa, il terrore dei mari, ordina il saccheggio. Molti trovano la morte, altri, tra i quali un macilento ragazzo, Giovan Dionigi Galeni, destinato a diventare il famoso Kiligi Alì alias Uccjalì, vengono fatti schiavi e divisi tra Sultano pirati e ciurma. Castella non ha neanche il tempo di rimangiare le sue ferite che nel 1544e nel 1548 il pirata Dragut la saccheggia di nuovo. Gli abitanti non si perdono d'animo, sanno che il nemico ritornerà ancora per cui rinforzano il Castello, scavano caverne nelle quali possono accedere attraverso botole ben mimetizzate, costruiscono una torre di guardia apprestano efficace difese anche in vista di un attacco da terra. E' chiaro che tutto questo impoverisce il borgo che spesso chiede un alleggerimento momentaneo dai gravami fiscali che è obbligato a versare ai vari signori e al vescovo. Drammatiche sono nel frattempo anche le vicende dei suoi feudatari. Alla morte di Andrea Carafa (1526) la Contea di Santa Severina, che comprende anche la Terra di Castella ed altri feudi, passa a Galeotto Carafa, nipote di Andrea che deve affrontare tra l'altro le incursioni di Barbarossa e di Dragut ma anche una congiuntura economica molto sfavorevole che comporterà lo smembramento della contea di Santa Severina e la vendita di Castella a Ferrante Carafa, conte di Soriano e duca di Nocera dei Pagani. A Ferrano succede nel 1558 il figlio Alfonso che proprio nello stesso anno deve assistere ad un'ennesima incursione turchesca. Questa volta è Mustafà Pascià che prende di mira Cutro e dopo aver arrecato notevoli danni anche a Castella, la mette a ferro e fuoco. Durante questa scorreria viene catturata la giovinetta Caterina Ganguzza che si racconta abbia preferito darsi la morte piuttosto che diventare concubina del Sultano. Alfonso deve anche sostenere lunghe liti con il Vescovo della diocesi che vantava dei diritti su alcune terre di Castella. E lui poi che avanza l'idea, respinta da tutti i vassalli, di abbattere addirittura Castella per impedire che vi si annidassero i Turchi. Sotto Alfonso e il suo successore Francesco Maria il feudo si sfalda con la vendita a Giovanna Ruffo, marchesa di Licodia e poi anche principessa di Scilla, di Castella, Cutro, Roccabernarda e feudi annessi. Alla morte di Giovanna (1650), Castella passa al figlio Francesco Maria sotto il cui dominio Castella vede la soppressione, da parte di Papa Innocenzo X, del convento dei frati Minori Riformati nell'ambito di un generale progetto che interessava tutti i Conventi che non avessero un certo numero di religiosi. La situazione precipita, i creditori dei Ruffo non potendo questi ultimi onorare i loro ingenti debiti chiedono la vendita all'asta dei loro beni. Le terre di Cutro, Castella, Roccabernarda ed altre ancora vengono acquistate allora per 150.000 ducati di Pietro Carafa per conto di Francesco Filomarino (1664). I Filomarino sono gli ultimi intestatari del feudo suddetto. La legge eversiva della feudalità, voluta dai conquistatori francesi di Napoleone, avrebbe favorito il passaggio di quello che era stato un grande feudo alla famiglia dei Barracco e dei Berlingieri. Il fatidico anno 1799 vede ancora Castella epicentro dello scontro tra francesi e borbonici e punto di approdo delle truppe provenienti dalla Sicilia. Gli anni ruggenti di Castella sono però finiti. Da quel momento il borgo, prima aggregato a Crotone e poi divenuto frazione di Isola Capo Rizzuto, segue le vicende amministrative e politiche prima del risorto Regno di Napoli, poi dello Stato italiano.
Nelle campagne di Stignano, un piccolo paesino ionico della Calabria, terra desolata dal malgoverno spagnolo, dalle calamità naturali e dalle scorrerie turche, nasce il 5 settembre 1568 in una casa dove per far luce si accendeva un fascio di ristoppie, Giovan Domenico Campanella, dal padre Geronimo, ciabattino analfabeta ma saggio, e da Caterinella Martello, un'intelligente contadina con tanti figli da accudire. Il piccolo Giovan Domenico, assetato di una voglia insaziabile di conoscere e scoprire, cresce con i racconti paterni attorno al focolare domestico, dai quali intuisce che la possibilità di apprendere passava, così come avveniva fino a pochi decenni prima, attraverso la chiesa. Precocissimo, brucia in lui la sete di sapere: ammaliato dall'eloquenza di un frate domenicano, a 13 anni entra nell'Ordine dei predicatori e diventa frate Tommaso. I suoi maestri delle discipline grammaticali, filosofiche e teologiche iniziano ad alimentare forti dubbi nel giovane dotato di sfavillante ingegno: Campanella, Campanella, tu non farai buon fine, dice il maestro dei novizi al domenicano dall'ingegno vivace che nelle sue poesie scriveva: "Di cervel dentro un pugno io sto, e divoro tanto, che quanti libri tiene il mondo non saziar l'appetito mio profondo: quanto ho mangiato! e del digiun pur moro". Nel 1588 arriva a Cosenza, 'l'Atene delle Calabrie', che in quel periodo gode il suo massimo splendore, ricca di effervescenza culturale, grazie all'Accademia cosentina, rifondata da B. Telesio. Dopo un viaggio occasionale, svolto a bordo di una carrozza a quattro cavalli, ad accogliere il giovane Campanella nel convento dei Domenicani (un tempo sede dell'Università, la terza del Viceregno) sito nei pressi della confluenza del fiume Crati con il Busento, è padre Enriquez. E' qui che il grande pensatore inizia a divorare i testi telesiani introvabili altrove ed inizia ad entusiasmarsi per le opere di quello che considererà il suo maestro di vita e che, pur non riuscendolo mai ad incontrare personalmente, rimarrà sempre l'ispiratore della sua fisica e cosmologia.
Il 3 ottobre 1588 Telesio muore e Campanella, portandosi nel Duomo di Cosenza per rendere omaggio alla salma del suo maestro, da lui considerato il genio più grande di tutto l'intero secolo, per ringraziarlo dei suoi preziosi insegnamenti e per aver ricevuto l'ispirazione divina alle confluenze dei fiumi, getta sul catafalco un madrigale in latino di omaggio devoto.
Nell'autunno del 1588 Campanella viene allontanato dai suoi superiori dal convento di Cosenza, per aver pronunciato l'elogio funebre del filosofo eterodosso cosentino e per aver stretto amicizia con un astrologo negromante di nome Abrahm. Fu trasferito nel convento di Altomonte, dove compose in pochi mesi una nutrita apologia del Telesio con il titolo di Philosophia sensibus demonstrata, la filosofia dimostrata con i sensi e non più appresa supinamente sui libri.
Incurante dell'obbligo di residenza, si reca a Napoli dove nel 1591 subisce un primo processo 'per congiura con i demoni'; prosciolto dal processo inizia a viaggiare, partendo da Roma, quindi Firenze, Bologna e Padova, dove studia per un anno. Insofferente all'aristotelismo dogmatico inizia ad esplorare senza remore lo scibile del suo tempo.
In seguito alle sue idee poco ortodosse in materia religiosa, si ritrovò ben presto nel mirino degli inquisitori, dai quali fu accusato di eresia e rinchiuso in carcere a Roma. Infrazioni disciplinari, intemperanze verbali, opinioni eterodosse, dispute incaute, forniscono al Sant'Uffizio materia per un duplice processo che si concluderà in Roma nel dicembre 1597 con l'ordine di far rientro verso la nativa Calabria. Nel 1599 tornò in Calabria a Squillace dove tentò di organizzare una rivolta contro il dominio spagnolo a favore dei Turchi e di gettare le basi per una profonda riforma religiosa, ma fu tradito da alcuni compagni e, dopo aver tentato la fuga, fu processato e condannato a morte nel carcere di Castel dell'Ovo a Napoli, un fortilizio di origine normanna. Sfuggì alla condanna a morte simulando la pazzia per 27 anni, senza cedere alle pesanti torture cui venne sottoposto nel tentativo si strappargli l'abiura. In questo periodo malgrado la sorveglianza persecutoria, le proibitive condizioni ambientali, le torture, la mancanza di libri, ritesseva le 30.000 pagine dell'immensa tela delle sue opere. Durante la prigionia compose La monarchia di Spagna, La Teologia, L'Apologia pro Galileo, le Poesie, La Città del Sole.
I Solari o abitanti della Città del Sole vivendo in simbiosi con la natura che li circonda, riescono ad avere con essa un rapporto di armonia e di rispetto secondo il giusto presupposto che il genere umano non è avulso dal resto dell'ambiente ma ne è parte integrante e di esso è una componente fondamentale. Credono nell'immortalità dell'anima e rivolgono le preghiere più solenni al cielo di cui indagano i segreti astrologici.
Le fonti delle poesie di Campanella sono i classici latini Lucrezio e Virgilio, ma hanno un'influenza determinante anche Gioacchino da Fiore e Dante. Campanella spesso si propone in esse, non senza enfasi, come portavoce della verità: Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia; [...], dunque a diveller l'ignoranza io vengo.
In tutte queste opere come nelle successive, è presente la fisica naturalistica di Telesio che gli si rivelò coerente e liberatrice, svincolata dall'aristotelismo dominante che i docenti ripetevano meccanicamente da secoli e sulla quale avevano costruito il loro potere accademico e religioso. Telesio il telo della tua faretra uccide dai sofisti in mezzo al campo degli ingegni il tiranno senza scampo; libertà dolce alla verità, impetra. Nel 1604 è trasferito a Castel sant'Elmo in una fossa sotterranea umida e senza luce, ove resta legato mani e piedi per quattro durissimi anni tra sofferenze ed umiliazioni. Nel 1613 Campanella ricevette Tobia Adami, letterato tedesco che riuscì a salvare parte dei suoi manoscritti che venivano ricomposti e rielaborati più volte in seguito ai sequestri dei suoi carcerieri, consegnandogli tutte le sue maggiori opere che questi trasporta in Germania. Inizia ad intrecciare un carteggio quotidiano di oltre 200 lettere. L'autore preferì firmarsi "Settimontano Squilla", attraverso una duplice allusione al senso profetico del proprio cognome. Campanella si sente un profeta; ha sette protuberanze in testa sulla sua scatola cranica in corrispondenza con i sette pianeti allora conosciuti. Campanella diventa Squilla: è lui la campana che risveglia, che fa aprire gli occhi alle genti e di conseguenza non può che attirarsi l'ira di coloro i quali nel governare vogliono mantenere le tenebre. Dopo essere trasferito da Napoli a Roma, nel 1626 riacquistò una parziale libertà. Fu una libertà effimera in quanto subito dopo un mese viene di nuovo incarcerato a Roma per rendere conto al tribunale ecclesiastico di quei fatti che la giustizia laica gli aveva rimesso dopo una lunga espiazione. Rimase quindi per altri due anni di dura prigionia nel palazzo romano del Sant'Uffizio, e fu rimesso in libertà per intercessione del Papa Urbano VIII di cui si attirò il favore grazie alla sua conoscenza della magia. Fu costretto poi dall'invidia dei curiali a fuggire da Roma e a rifugiarsi in Francia, dietro suggerimento del Pontefice, per timore di essere accusato di un nuovo complotto contro la Spagna, dove potè godere della benevolenza di numerosi suoi estimatori. L'1 dicembre 1634 veniva accolto a Parigi da tutto il mondo della cultura, diventando consigliere politico del potente cardinale Richelieu, che gli assicura onori ed una sorta di vitalizio. L'indomabile perseguitato però non rinuncia a calmare il suo spirito ribelle e continua a lottare per i suoi forti ideali politici e religiosi che trovano l'espressione più alta nell'universale monarchia cattolica unificatrice di tutta la terra. La guerra dei trent'anni, entra nel vivo e Parigi festeggia la nascita del futuro Luigi XIV al quale Campanella prepara l'oroscopo alla presenza di re Luigi XIII che ne rimane affascinato. All'alba del 21 Maggio 1639 spirò tra le preghiere dei confratelli domenicani del convento della Rue St-Honorè. E' sepolto nella fossa comune come semplice frate in pieno rispetto delle sue ultime volontà. Le sue ceneri in seguito all'abbattimento di quell'edificio nel 1793, andarono disperse. La cultura intera lo piange.